La memoria bisogna alimentarla tutti i giorni, innaffiarla come un vaso di fiori. La memoria è la storia e la storia è quello che siamo.

Da questo dipende cosa vogliamo diventare.

La memoria è il sangue dei giusti che hanno scelto la lotta nello svolgimento integerrimo del loro dovere, senza se e senza ma.

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“Piersanti Mattarella, uomo dalla morale adamantina, odiato da Cosa Nostra e detestato dalla destra estrema, che teme un accordo con il Pci in Sicilia, cade nell’agguato una domenica mattina. Poco prima delle tredici. Sta andando a messa e la sua macchina, senza scorta, viene bloccata sotto casa, in via della Libertà. Un killer a volto scoperto gli spara da pochi passi. La pistola s’inceppa. Il killer torna indietro. Se ne fa dare un’altra da un complice e porta a termine l’esecuzione. Piersanti muore tra le braccia di sua moglie, Irma Chiazzese. Certa che questo mondo debba essere l’inferno di qualche altro pianeta, la signora Mattarella imprime nella mente gli “occhi di ghiaccio” dell’assassino. Lo indica (lo farà anche a processo) in Valerio “Giusva” Fioravanti. Le indagini vengono affidate a Giovanni Falcone, che assieme a Giusva incrimina Gilberto Cavallini, il presunto complice, responsabile, pochi mesi dopo, dell’omicidio del magistrato Mario Amato, giustiziato con una P38 identica a quella che ha finito Mattarella. Anche Cristiano Fioravanti accusa il fratello, eppure sia Cavallini che Giusva, una volta scomparso Giovanni Falcone, vengono definitivamente assolti. Omicidio mafioso, si dice.”

Così scrive Andrea Malaguti il 5 gennaio su “LA STAMPA” on line, facendo il punto della situazione tra il caso di Cecilia Sala, l’ingegnere Abedini, gli Americani, alleati, l’Iran.

Caso complicatissimo per “la nostra” Premier, che si deve districare fuori dal salotto di casa sua.

Avrà sufficienti strumenti per farlo? Ci sarà qualche suo alleato politico interno in grado di supportarla?

Ce lo dirà la storia. E in questo caso molto presto.

Io però sono sempre autocentrato su quanto è accaduto in Sicilia.

Destini attuali

Sempre convinto che lì si siano determinati i destini attuali della mia terra e di tutta l’Italia.

Un’isola di sangue che fra tante meraviglie fra limoni e fra conchiglie, massacra figli e figlie”, … dove “Ci sono stati uomini che passo dopo passo hanno lasciato un segno con coraggio e con impegno”. Così scrive nella sua canzone Fabrizio Moro. Pensa, prima di sparare, pensa.

Questo forse più di ogni altro è il mio grande rimpianto: quello di non aver avuto il coraggio di restare e di considerare un’offesa quella ricevuta un giorno a pranzo: “se tu non ti nni va di ca, ti fa mazzari”, a cui rispondere lasciando tutto. Proprio tutto. E da quel giorno mi sono sentito come se ti avessero levato la pelle come si fa con i capretti subito dopo che sono stati macellati, si fa un taglietto alla base delle zampette e si soffia e la pelle viene via facilmente senza fare male. E poi la tua pelle fosse stata riposta in un angolo per ricordarti ogni qual volta tornavi: tu ti nannasti! Ora chi vo.

L’autore non c’è più e quindi non è il caso di menzionare chi l’ha pronunciata e forse non sapeva nemmanco cosa stesse dicendo. Oggi non è più importante perchè tutto è stato perdonato e non poteva essere diversamente. Ma è importante quella frase che ha determinato la mia vita, quello che sono, quello che ho fatto e quello che continuerò a fare.

Amore per la politica, ovunque mi trovi. Ma la Politica con la P maiuscola. Quella che si adopera per il Bene Comune di Tutti e non per gli interessi di qualcuno. Amore per il cortile di Don Bosco e per il lavoro che faccio.

Ho esercitato il mio primo diritto al voto da poco maggiorenne nel seggio della scuola elementare di Sant’Andrea del mio paese natio alle elezioni politiche del 1983. Votai per la Democrazia Proletaria di Mario Capanna, forse perché aveva candidato Peppino Impastato alla memoria, sicuramente perché i candidati erano sconosciuti ed ero convinto che nessuno fosse “in odore”. Dopo lo spoglio scoprii che il mio era l’unico voto che aveva preso in quel seggio.

Diritto di voto

All’epoca per esercitare il tuo diritto di voto da studente emigrato fuori sede potevi usufruire dello sconto elettorale per comprare il biglietto del treno e con poche lire “tornare a casa”. E a quel tempo ogni occasione era buona per rivedere i propri cari e gli amici. Il treno era quello dei sogni. Oggi forse lo si può vedere in qualche film d’autore. Il treno del sole, era chiamato. Partiva alle 17,40 dalla Stazione di Porta Nuova. Nelle prime ore del mattino dopo aver percorso per tutta la sua lunghezza le Calabrie raggiungeva Villa San Giovanni, dove c’erano i “Ferry Boat”. Navi traghetto grandi a sufficienza per ospitare tutte le carrozze del treno. Dopo un bel numero di manovre le medesime venivano collocate all’interno della stiva. A quel punto potevi scendere dalla carrozza e facendo molta attenzione potevi salire in coperta. Bisognava ricordare bene la strada percorsa per essere in grado di ritornare dalla scaletta giusta alla carrozza. A bordo lasciavi la valigia semivuota, che conteneva solo qualche capo di abbigliamento, che meritava le cure di mamma per essere lavato e ritornare funzionale alla bisogna. Una volta in coperta la meta era il bar di bordo. C’erano già gli arancini fumanti, ma per noi indigeni mangiarne uno a bordo significava fare un sacrilegio. Solo quelli fatti in casa erano degni di essere gustati! Ed in questo Zia Maria era imbattibile. La sorella di papà era rimasta “schetta” un po’ per dovere, un po’ per dovere. Come direbbe Cetto Laqualunque, “alcuni non si sono fatti i fatti loro”. I matrimoni che gli arrivarono furono rimandati al mittente, con grande dispiacere di noi nipoti perché la Zia Maria era piccolina ma era molto carina e ha consumato i suoi anni servendo prima i suoi genitori e poi appunto sua sorella Aurelia, che come lei era rimasta “schetta” (zitella). Lei, Aurelia, aveva un carattere troppo forte per poter convivere con chicchessia che non si fosse sottomesso. Non per niente io la chiamavo “u marasciallo”.

Stretto di Messina

Una volta salpata la nave impiegava circa 30/40 minuti per attraversare lo Stretto di Messina: un incanto a qualsiasi ora del giorno o della notte. Ma quando c’era “mare”, ragazzi miei, te la facevi addosso per la paura. Il traghetto era costretto a costeggiare la costa calabrese attraversare molto vicino a Capo Faro e poi costeggiare Messina prima di entrare nel porto. Ma li c’era sempre la Madonnina ad accoglierci e allora voleva dire che eri arrivato a casa. Poco importa che i manovratori avrebbero impiegato almeno un’ora ad estrarre le carrozze del treno, rimetterlo sui binari in direzione Palermo e attaccarci due locomotori, uno davanti e l’altro dietro. E si perché il treno avrebbe dovuto percorrere l’unica via all’epoca esistente che saliva a Gesso, su per i Colli di San Rizzo che proteggono Messina dalle incursioni provenienti dalla Capitale dell’Isola, ed era necessario avere due locomotori che lo spingessero, talmente era ripida la salita. Una volta arrivati a quella stazione, il locomotore in coda veniva staccato e ritornava a Messina mentre il treno finalmente iniziava a percorrere la linea ferrata. Magari non tutti lo sanno, ma quella linea ferrata era la seconda costruita in Italia dopo la Napoli Portici, e tale era rimasta da quel tempo. Un giorno, forse vi racconterò il tracciato che percorre la costa tirrenica fino a Palermo. E magari scoprirete che a quel tempo il treno impiegava quasi 4 ore e che era a binario unico. Prima fermata Milazzo. A quel punto eri a casa. Il tempo di fare un curvone che era stato disegnato per non toccare le terre di questo o di quello ed il treno entrava nella piccola stazione di Barcellona Castroreale. Immancabilmente ad attendermi mio padre, che parlava con qualcuno. Lui conosceva tutti e tutti lo conoscevano. Era impiegato all’ufficio anagrafe del paese e quindi, per forza conosceva tutti e tutti lo conoscevano. Io non potevo fare un passo senza che lui sapesse dove andavo, con chi ero, a che ora mi ero spostato da lì a la. Sempre. Da quando sono nato. Ora non poteva più. Io ero a Torino. E lui a Torino non ci veniva. Non la conosceva. Sarebbe stato un pesce fuor d’acqua.

La memoria di Pier Santi Mattarella

E questo cosa c’entra con la memoria di Piersanti Mattarella?

C’entra centra!!! Eccome!

Piersanti era diverso dagli altri. Non si poteva concepire che qualcuno potesse pensare con la sua testa in modo diverso dal comune sentire degli “amici”. Non si poteva concepire che qualcuno dissentisse dal modo come veniva gestito il “bene comune” in Sicilia e quindi stop.

Se non ti nni va, cca ti mazzunu!

E a lui lo hanno assassinato.

In modo vile.

Perché voleva il “bene” dei suoi concittadini.

Perché non voleva essere colluso.

Perché non voleva fare come fanno tutti e chiudere gli occhi.

Già la mafia uccide solo d’estate.

Già delitto d’onore fu.

Anche al mio paese quanti delitti d’onore: uuuuuu!!!

Pure il marito di una signora vicina di casa. Lo avevano rinchiuso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, 22, pacci (pazzi)! Ma dove si è mai visto che un assassino viene incarcerato a due passi da casa sua. Ma che dici, “ciaviunu vaddato a so fimmina.” E iddu ci sparò! (ma cosa dici, avevano posato gli occhi sulla sua donna. E lui sparò!)

Ma che dite, questo può essere accettato!?

Allora Matterella stava mettendo mano a questo sistema in modo profondo e con cognizione di causa.

Anche lui conosceva i suoi vicini di casa, il commerciante di vestiti, l’avvocato, u dutturi, il fruttivendolo, u pitturi.

Ecco.

Mattarella voleva cambiare l’ordine costituito. Certo facciamo l’unità di d’Italia. Soldi servono? Ve li diamo. Quanti ne volete. Ma qui tutto deve rimanere com’è.

Film: La mafia uccide solo d’estate di PIF

Brano musicale: Pensa di Fabrizio Moro https://www.youtube.com/watch?v=PaSU8hrgPYQ

Libro: una vasta gamma da “Il Gattopardo” in poi