Lidia, l’ho conosciuta un giovedì di luglio nel 1963, alle 7 e 45 del mattino.
Ciao Mamma. Tutto è compiuto. Sono in treno e ritorno a casa da mia moglie e dai miei figli. E tu mi dirai: “Salutami tua moglie e i tuoi figli”, come mi ripetevi tutte le volte al telefono nelle nostre telefonate giornaliere. È il 17 giugno e ti scrivo perché i ricordi mi accompagnino in questo triste viaggio anche se so che non la potrai leggere. Il libro invece, Stazione di Torino Rebaudengo Fossata lo hai letto. E mi hai anche fatto i complimenti.
Lei aveva 22 anni e ne avrebbe compiuto 23 l’11 ottobre, precisamente tre mesi dopo.
Mi trovavo da quel momento sulla terra a Barcellona Pozzo di Gotto, ridente (una volta ahimè) località della costa tirrenica del messinese tra due bracci, Capo Milazzo e Capo Calavà, e di fronte le stelle.
Via Giovanni Prati 63. Ah i numeri. 63, il numero civico.
“Per le vie deserte, in doloroso
abito bruno e con vel sugli occhi
passa la bella Edmenegarda – e a questo
lume degli astri si raccoglie in una
Romita barca e con le sue memorie
vaga piangendo. Misero! che speri
se ti percote Iddio?” … [EDMENEGARDA – canti cinque di G. PRATI]
Al terzo di una palazzina a tre piani che si affacciava sul passaggio a livello di Via Ugo di Sant’Onofrio, perché la stazione era a due passi e la strada ferrata divideva in due la cittadina dei due torrenti: il Longano e l’Idria.
Sopra solo la terrazza, che era il mio circuito delle prime pedalate e dei panni stesi, delle prime feste di compleanno: potete capire l’11 luglio che caldo faceva in casa a Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia.
La mamma mi portava quando doveva fare il bucato oppure quando veniva la “Signora Bionda” a cardare la lana dei materassi per la pulizia estiva.
Sotto l’officina di Bonanno e Molino, strettamente in ordine alfabetico. Oggi ci è rimasto Nicola, mentre Domenico e i suoi fratelli sono dopo il passaggio a livello, che però nel frattempo è stato sostituito da una rotonda. La strada ferrata non c’è più: è un nastro d’asfalto che corre da est ad ovest. Hai tempi in cui fu cambiato il tracciato della ferrovia e fu posto il doppio binario avrebbe dovuto diventare una sorta di super strada interna. Prima o poi le cose accadono giù, nella mia cittadina natia e in tutto il sud d’Italia. Non c’è fretta. Come il ponte sul torrente Mela! Per quello sul torrente Longano crollato il 22 novembre del 2011 ci sono voluti 11 anni. Chissà se questo record resisterà? Ah, ah, ah, penso al ponte sullo Stretto di Messina: “mancu li cani”!
Nicola l’ho salutato prima di partire. Domenico e suo padre il giorno stesso che sono arrivato. Non ho avuto il coraggio di aspettare Mariella, “Marabella” così la chiamavo da piccolino.
Il treno ha ripreso il suo percorso uscendo dalla stazione di Battipaglia.
Avrò tempo di pensare al film della mia vita con lei che si è interrotto alle 17 dell’11 giugno.
Io e Marta avevamo prenotato il biglietto per il 23 giugno: siamo arrivati in ritardo.
L’ultima volta era stato da lei qualche mese fa, prima di Pasqua.
Amen! E così sia. Non ho nessun diritto di gridare al mondo che è un’ingiustizia. Il buon Dio ha tanti grattacapi dal Nilo a destra e a sinistra, in giù e in su. La gente, i bimbi, muoiono senza alcuna ragione. O meglio una ragione c’è: la ragione dell’avidità, dell’egoismo. Ma fate pure voi con i sostantivi del caso. Come posso pretendere che abbia potuto accorgersi di Lei. Oppure si. Oppure se n’è accorto ed ha preferito che non soffrisse perché già tanto le era toccato di fare.
Su Via Giovanni Prati, di fronte, una costruzione bassa all’inizio della via, che definirei quasi un monolocale. Era l’officina “du Ziu Mariu”, l’officina di riparazioni auto di Mario Palladino, il fratello dello Zio Edoardo, marito di Angelina la sorella di papà, che se n’è andato troppo presto alla fine degli anni 60 anche lui per infarto.
Lo zio Mario, suo fratello Eduardo e il cugino di mamma Salvatore Giunta, avevano costruito una Balilla con il cassone per il trasporto merci. L’avevano tagliata in due e poi avevano montato un pianale su due balestre costruite a mano e realizzato un piccolo furgone. Mario ed Eduardo erano i maghi del motore, mentre Salvatore era un vero meccanico: tornitore e fresatore.
Di fronte abitava il “Maestro Recupero”, Francesco e come il Santo era semplice ed austero nel suo incedere. Almeno questo è il mio ricordo. La otto e cinquanta FIAT coloro caffè latte. Il vestito grigio sempre in ordine in inverno oppure beige d’estate, quando solo negli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze si concedeva una polo bianca e smetteva di indossare la giacca. Non aveva figli: anzi ne aveva tanti, politicamente parlando, vero Pucci!
Dove Via Giovanni Prati si restringeva, prima di confluire in via Umberto I, c’era la bottega di Donna Sara che vendeva di tutto in un contesto di igiene ben poco compatibile con gli alimentari e non solo: la ricordo ancora aperta fino a diversi anni dopo che eravamo andati a vivere in Via Matteotti, dove papà e mamma avevano costruito la loro casa con la cooperativa Nuova Domus: tempi felici furono quelli.
Poi ci siamo dovuti trasferire in centro, nella palazzina che suo papà, nonno Peppino, aveva fatto costruire, o meglio aveva progettato, costruito e diretto i lavori, lui “all in one”, come spesso succede in meridione o anche in altri luoghi in cui qualcuno si crede Superman.
La mamma aveva bisogno di stare vicino ai suoi genitori per poterli accudire senza trascurare me e Corrado e soprattutto papà, che era molto esigente quando usciva da lavoro e tutto doveva essere pronto per il pranzo. “A pasta ca sassa tinciuta”, così definiva il suo primo piatto preferito: pasta con pochissima salsa, il sugo di pomodoro come lo chiamano al nord, ma ben ristretta. Guai se si intravvedeva dell’acqua intorno al passato di pomodoro.
Di fronte all’officina di Bonanno e Molino c’era una falegnameria. A destra delle casette con il cortile intorno mentre a sinistra la Via Giovanni Prati si inoltrava nel quartiere di San Giovanni.
A sinistra dell’officina di Zio Mario c’era un rifornimento di benzina e c’è ancora, proprietaria la mamma di Francesco e Aurelio, che poi furono miei compagni di squadra nell’OR.SA, la squadra di calcio dell’oratorio.
Davanti la Via Marconi, che incrocia la Via Ugo di Sant’Onofrio, la statale 113 che va perso Palermo, una delle due arterie quasi parallele che attraversano Barcellona e Pozzo di Gotto fino alla chiesa di San Giovanni.
Dall’altra parte la Via Operai, che si apre in Piazza Libertà, con il palazzo dei Salvo da una parte e il palazzo Caliri dall’altra e le altre abitazioni a fare da corona al tratto di statale che va verso Messina. E sotto, il negozio della Zia Aurelia, l’unica sorella di papà ancora viva. La Zia Caterina invece è l’unica sorella di mamma ancora viva. Ed entrambe sono ultra novantenni.
Questo luogo era crocevia della vita di Barcellona: si fermavano i pullman di linea; c’erano gli artigiani e i commercianti che si affacciavano con i loro negozi, c’era la pescheria e il mercato della frutta e verdura a pochi metri di distanza, oggi è diventata la movida invernale di Barcellona. C’ero io che spadroneggiavo con il triciclo in lamiera e il mio ginocchio ne sa qualcosa e “u paninu ca muttadella”, vero Adele e Terina!
Napoli Centrale, recita il cartello blu con la scritta bianca mentre in cuffia ci sono i Simply Red “Live at the Royal Albert Hall”. Il treno si ferma. Mi sposto nel posto di fronte per viaggiare nel senso di marcia.
E continua anche il mio viaggio nella memoria dei ricordi.
Papà aveva la 850 grigia, oggi il colore di moda. Con quella si usciva la domenica per andare dai nonni o tutte le volte che si doveva andare da un parente o ad un evento importante. In particolare si andava a Sant’Agata di Militello da sua sorella Angelina. Il mio primo compleanno fu festeggiato lì perché era anche il compleanno della casa di Zia Angelina e Zio Edoardo. Si trasferirono a Sant’Agata negli anni sessanta perché lo Zio trovò lavoro nella concessionaria Fiat più importante della provincia di Messina nella zona tirrenica.
Con la 850 si andava anche a Messina e si passavano i Colli di San Rizzo. Meta era la Standa: ricordo come fosse oggi il banco con le boccettine colorate di profumi che era la mia attrazione. “Zio Silvio” non era ancora arrivato!
La mamma davanti, ovviamente, e noi due dietro, così ricordo. In auto potevano esserci anche altre persone, ovviamente la Zia Maria, sorella di papà che mai vide l’abito bianco indosso a lei.
Ho memoria di una lavastoviglie che era più alta di me ed era posta in cucina prima di entrare nello sgabuzzino. La cucina aveva una grande finestra che dava nel pozzo luce del palazzo e quindi tutte le famiglie che condividevano il lato nostro si potevano parlare da quella finestra. Le imposte erano in legno con vetri sottilissimi. Sotto, al primo piano, abitava la Zia Ninetta con suo marito Vito. Prima di me era arrivata Annamaria e dopo di me Carmelo, che ha preceduto di un anno Corrado. Annamaria e Carmelo se ne sono andati troppo presto, in quella tragica domenica del 21 dicembre 1986.
In quella casa le feste di compleanno erano un momento di gioia di vissuto da tutte le famiglie che vi abitavano. Antonella e Nicola erano i più grandi, Domenico e Mariella subito dopo di me e Corrado. Ci dovevano essere sei famiglie. Ahimè non le ricordo tutte. Me ne mancano due se avete fatto i conti: i Bonanno, i Molini, i Sugamele, il cognome di Zio Vito da Furgatore comune in provincia di Trapani, e noi i Gentile. La Signora Venera, mamma di Domenico e Mariella, era terrorizzata dalla mia presenza perché io ero secondo lei un demonio che torturava i suoi figli: tanto ero irrequieto e monello. Ma io giuro di non avere un ricordo tale.
A fianco alla cucina, che mamma viveva nella quasi totalità della sua giornata, che iniziava con il preparare la nostra colazione a base di latte e biscotti, i Montefiore insostituibili, c’era la sala da pranzo. Papà non l’ho mai visto seduto a fare colazione a quel tempo. Non so se la faceva. Ed in ogni caso quando noi eravamo piccoli al mattino prima delle 8 lui era già in giro a fare la spesa e poi si recava a lavoro. Era impiegato in Comune.
La sala da pranzo aveva il tavolo grandissimo. Io e Corrado lo utilizzavamo di nascosto per giocare a nascondino e talmente era grande che ci ficcavamo sotto. Poi c’erano un mobile di quelle chi si usavano a quel tempo per contenere bottiglie e piatti, da tirar fuori solo per le occasioni importanti. Si trattava del servizio di piatti da 12 persone, regalo immancabile di matrimonio, fatto da un parente o un amico tra i più importanti.
Ma “servizio di piatti” per chi è nato dopo il duemila significa poco, direi forse che è meglio spiegare in cosa consiste: 12 piatti piani, 12 piatti fondi, 12 piattini da frutta, la zuppiera, la scodella per la pasta, il piatto di portata, ne manca uno perché dovrebbero essere 40 pezzi come diceva la Zia Aurelia che li vendeva. Poi c’era la posateria, ossia il servizio di posate. Di nuovo: 12 forchette, 12 coltelli, 12 cucchiai, 12 forchettine per il dolce o la frutta, il mestolo, le posate di portata. E poi c’era il servizio di bicchieri. E poi c’era il servizio da te e caffè. E avanti così. Io ero un esperto di questi articoli perché la Zia Aurelia li vendeva nel suo negozio ed i suoi articoli erano i migliori del paese, diceva lei! Era però difficile che in una famiglia ci fossero regali ripetutile. Eppure non avevano internet o i social per mettersi d’accordo. Il mobile ospitava anche i liquori, le bottiglie di marsala o di alcolici vari, sempre frutto di regali ricevuti in occasione di festività o altra ricorrenza.
Ma la cosa più importante era la TV. L’apparecchio che si poteva utilizzare solo al pomeriggio dopo i compiti e che loro utilizzavano solo la sera. Non ricordo di averla mai guardata, però conoscevo già il telefilm Zorro e lo imitavo cavalcando il mio cavallino a dondolo, che stava lì. Ma in casa ci stavo veramente poco, a meno che non avessi la febbre. Ero sempre in giro, oppure in casa di qualcuno dei vicini o dei parenti. Oppure al negozio di Zia Aurelia, in particolare dopo che è nato Corrado perché mamma aveva già il suo bel da fare con lui.
La sala aveva due porte, l’altra dava sul lungo corridoio che iniziava all’ingresso e arrivava fino in camera da letto di mamma e papà. Li siamo nati io e Corrado. C’era Luigi, il Dottor Coppolino, immancabile loro amico presente in ogni momento delicato o importante della loro vita. Anche lui da qualche anno ci ha lasciato. Al funerale di mamma c’era Raffaella. Con gli occhi gonfi di lacrime mi ha sussurrato: “A mamma lo dirò un po’ alla volta”. Luigi Era il nostro medico di famiglia. Io penso che lui e papà “siano nati amici”. Era diventato il nostro consigliere. Ricordo quando a metà degli anni 70 a papà diagnosticò il diabete e lo portò in tutta fretta a Roma al Policlinico Gemelli per le cure del caso. Quell’uomo, che pazienza. Era anche che artista perché dipingeva e scriveva!
Percorrendo il lungo corridoio di questo appartamento, che per me da piccolino sembrava grandissimo, prima di arrivare in camera da letto si raggiungeva la cameretta dei bimbi, che all’epoca non erano sperduti: oggi chissà, forse siamo tutti “bimbi sperduti”. Ma forse no. Arriva un tempo che loro vanno, intendo mamma e papà, cambiando forma e sostanza, ma soprattutto dimensione. Chissà in quale spazio tra gli spazi si trovano adesso. Li immagino insieme, bellissimi nei loro abiti eleganti con gusto. Quel gusto nel vestire che ci hanno trasmesso e che fa parte di noi come caratteristica distintiva. Così come lo sono gli occhi azzurri di Corrado, che ha preso da nonna Angela, la mamma di mamma. Oppure la laboriosità che le famiglie artigiane di provenienza ci hanno trasmesso. Mai un minuto fermi. Sempre qualcosa dobbiamo fare.
Mamma mai un minuto ferma. Cucinare, pulire, accudire i figli, la biancheria. Preparare le torte e la focaccia per le feste di compleanno o per ogni altra occasione che per noi era buona per fare festa ed invitare qualcuno a casa. E sì perché casa era sempre piena di bambini. Sebastiano il primo. Riassettare, soprattutto dopo ogni festa e i nostri compleanni, che si festeggiavano con puntualità il giorno in cui ricorrevano. Il telefono era all’ingresso. Serviva solo per le telefonate importanti, se qualcuno stava male oppure se bisognava accordarsi per un incontro.
Il lungo corridoio era identico a quello di Zia Ninetta, che lei teneva splendente come un marmo luccicante.
Io lo percorrevo a tutta velocità e pattinavo fino ad entrare in scivolata dentro la camera de letto, che fosse quella di mamma o la sua. Mii! Eppure nessuno mi diceva niente. Sarà perché “non si nnaddunaunu”. Già non se ne accorgevano che io entravo in casa! Ah, ah, Ah.
E poi giù per le scale come un puledro. E la Zia Ninetta: “In questo palazzo ci sono i cavalli!” Uno, uno solo. E bastava per tutti. E lei, mia mamma, se la doveva sentire. “Cucina così, lava cosà. E la pasta stai attenta che non si scuocia se no mio fratello Pippo… E attenzione al colletto della camicia e ai polsini. E i ragazzi devono uscire ordinati con i capelli pettinati”.
“Non ce la faccio più”: chissà quante volte lo avrà pensato e quante volte lo avrà sussurrato. Ma a mio padre mai nulla avrà detto. Zia Ninetta lo aveva cresciuto lei papà. Il sesto di sette figli che la nonna Maria ha avuto a più di dieci anni di distanza dalla prima Angelina. E poi Giovannino, Mimmo, Ninetta, Aurelia, Pippo (mio papà) e Maria. Ne è rimasta solo una: l’highlander Aurelia. A novembre compirà 95 anni. E ca mi femmu.
Mamma invece era figlia di Peppino e di Angela Rossello. Lui imprenditore ed ebanista tutto fare. Aveva sei figli, Caterina, Salvatore, Antonio, Antonia, la zia Maria, poi c’era mia mamma ed infine Letizia. Mi raccontava che i primi suoi due fratelli erano morti appena nati o poco più e quindi sarebbe stati in 8. Mi raccontava che suo papà i figli li faceva lavorare tantissimo sin da piccoli, ma voleva che lei e Letizia studiassero. Aveva un debole per la più piccola, appunto la Zia Letizia, e per questo lasciò che se ne andasse a Roma a studiare all’ISEF dove poi diventò insegnante di ginnastica. Ultimo incarico al Mamiani di Roma. Lei inseparabile con lo Zio Nuccio, più bello di Alain Delon, e con lui ha vissuto fino alla fine e per sempre.
Anche mamma voleva insegnare dopo essere diplomata alle magistrali con la sua inseparabile amica Mimma, “a figghia i cummari battistina che stava a nchianata u ponti”. Praticamente fianco a fianco perché la casa era proprio all’incrocio tra la Via Giovanni Spagnolo e la via Verdi, prima di arrivare sulla copertura del torrente Longano dove si trovano il Municipio e l’oratorio Salesiano, però in territorio Pozzogottese. Ed in verità per qualche anno lo ha fatto. Aveva preso le attività di pre-scuola a Novara di Sicilia (corsi e ricorsi storici) per fare punteggio e sarebbero bastati ancora pochi anni per avere il punteggio necessario al tempo per passare di ruolo come maestra alle elementari. Poi successe un patatrac. Le zie si misero in mezzo e riempirono di chiacchiere la testa di papà: “savavaddari i figghi, chi è sta scola”. Si ripresero la 500 bianca che era intestata a Zia Maria, che aveva la patente, e mio padre la costrinse a rinunciare. Lei era da sola e non ce la fece a combattere questa importante battaglia per la sua indipendenza quanto meno mentale: magari oggi sarebbe una anziana signora alla soglia dei novant’anni oppure no. Chi lo sa. Sicuramente lei ha avuto molti rimpianti per come sono andate le cose su questo versante e me li ripeteva in continuazione e soprattutto quando bisticciava con papà e soprattutto con le zie. Non poteva sopportare che io le parlassi di Aurelia o che andassi da lei a trovarla. Poi qualche hanno fa ha dimenticato tutto: non ricordava più la cognata. Ha trascorso la sua vita fianco a fianco a papà assecondandolo in tutto. Dal viaggio in America, uno dei pochi fatti per svago, a quelli causati dai problemi di salute che affliggevano entrambi. Poi un paio di viaggia Torino: la mia laurea, il matrimonio di Nino e Lucia, la nascita di Marta e ancora qualche ricorrenza. L’ultima volta che è venuta a Torino era Natale e papà non c’era più. Poi la sua memoria è peggiorata non ricordava più i fatti e le persone. Aveva fatto tutti i controlli e a parte questo e la sua bipolarità era tutto in ordine, anche il cuore.
È stato un fulmine a ciel sereno.
Lei ci vestiva sempre di tutto punto. Le scarpe sempre pulite quando uscivamo. I vestiti perfettamente in ordine. Ricordo i pantaloncini gialli “a piquet” sopra il ginocchio e la camicina blu. Era d’estate. La cintura e le scarpe di cuoio, rigorosamente di cuoio, perché per mio padre le scarpe da ginnastica non esistevano a prescindere. Ci avevano portato ai giardini difronte alle scuole e giù foto una dietro l’altra. Ma quante. E quanti ricordi. E ad agosto quante lacrime verseremo io e Corrado, quando tenteremo di mettere ordine a quel patrimonio infinito di ricordi. Oppure d’inverno. Pantaloncini corti, cappottino e berretto con i copri orecchi. E giù foto. Mamma mano nella mano, uno a destra e l’altro a sinistra. Papà alla macchina fotografica. Ricordo anche quando andavamo dalla parrucchiera. Ciao Liliana, ore ed ore prigionieri nel tuo negozio di Via Garibaldi. Vicino c’era il cinema Maya e il mercato, sempre lo stesso, ma con ingresso dal lato opposto alla via Operai.

Infine la terrazza.
Palestra a cielo aperto di gioco. La prima corsa in bicicletta. Le prime cadute. Con mamma che immediatamente veniva a soccorrermi, lasciando i panni da stendere per vedere che non mi fossi fatto troppo male. E una volta ci devo essere andato molto vicino perché vidi arrivare Luigi, il già citato medico di famiglia, pronto ad intervenire per medicare la ferita procuratami nell’inguine dalla leva del freno che non aveva trovato ostacoli a infilzarmi.
Non sono riuscito a salutarla.
Se ne è andata giorno 11 giugno. È nata l’11 ottobre. Io sono nato l’11 luglio.
Tutte coincidenza. Numeri. Tanto un numero vale l’altro. Certo ma il funerale il 13 giugno. Anche papà. Certo un numero vale l’altro.
Corrado ce l’aveva tra le braccia.
Così se n’è andata. In punta piedi. Senza dare disturbo.
Dopo che papà era mancato il 12 giugno del 2019, a proposito lei l’11 giugno e lui il 12 giugno, sempre coincidenze. Aveva chiuso baracca e burattini e non ne voleva sapere più dopo la morte di suo marito di fare qualsiasi cosa. Solo la Signora Giusy era riuscita a farla sorridere un po’ e si era affezionata a lei. “Mamma la Sig.ra Giusy è arrivata?” E lei mi rispondeva: “Chi?” “Mamma ma sei sola’” “No, c’è una Signora.” “Ecco mamma, si chiama Giusy”.
Ciao Mamma, saluta Papà.
Ciao Lidia.
Scritto sul treno Villa San Giovanni – Torino il 17 giugno 2025